Zenit: Anno Nuovo… Vita Nuova

Il nuovo indirizzo per continuare a seguirci è http://www.associazioneculturalezenit.org

Dopo aver raggiunto le 50.000 visite totali l’Associazione Culturale Zenit ha deciso di cambiare marcia e veste. Ringraziamo tutti i nostri simpatizzanti e tutti coloro che nel corso degli anni ci hanno seguito su questo blog, invitandoli a visitare il nostro nuovo sito. Uno speciale ringraziamento va anche a tutti i nostri militanti e collaboratori che nel passato hanno dato il loro prezioso contributo sperando, grazie anche a quello che è stato il loro operato, di continuare a crescere e trovare sempre più persone disposte, tramite la nostra comunità militante e tramite il nostro lavoro di controinformazione, a donarsi e lottare per l’idea. Questo blog rimarrà attivo come archivio. Gli articoli e le attività recenti saranno visualizzabili anche sul nuovo indirizzo.

Ad Maiora!!

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Rivoluzione Zenit

Da gennaio Zenit ripartirà con importanti novità e interessanti progetti in cantiere da realizzare. Ma le novità più vicine riguardano il sito e il ciclostile. Da giorni il blog non è stato più aggiornato perchè tra pochi giorni andrà online appunto il nuovo sito che sarà molto più ordinato e renderà il nostro lavoro molto più semplice da seguire. Inoltre siamo molto contenti di poter rendere finalmente ufficiale il ritorno del nostro storico ciclostile “Il Martello” che però a differenza del passato uscirà come bimestrale e sarà graficamente rinnovato. A breve info e indirizzi nuovi. In alto i cuori!!

ILMARTELLO

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Sol Invictus – 2012

Il Sole ritorna sempre, e con lui la vita. Soffia sulla brace ed il fuoco rinascerà.
Auguri a tutti i nostri fratelli europei!

SI1 SI2

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Il Corsaro Nero incontra Projecto Impulso

defnitivo_rojoRubrica a cura di Matteo Caponetti dell’Associazione Culturale Zenit

Le prime due interviste ci hanno dato l’occasione di conoscere due interessanti realtà quella di una comunità militante svizzera e quella di un portale di informazione polacco. Entrambe hanno lasciato spunti importanti di riflessione e ci hanno permesso di conoscere opinioni e punti di vista assolutamente condivisibili su molte delle tematiche affrontate. Per questo, dopo una pausa di una settimana in cui Zenit è stata impegnata nella raccolta di fondi e materiali per aiutare le minoranze serbe del Kosovo, il Corsaro Nero torna con la sua rubrica e fa tappa in Spagna dove incontra i ragazzi di Projecto Impulso.

1) Raccontateci la vostra storia, quando nasce Proyecto Impulso e di cosa vi occupate?

Proyecto Impulso è nato nell’ottobre del 2011, dopo l’esperienza, gli errori e i successi di Zona Cero, la nostra sede, che ha aperto le sue porte nell’agosto del 2009. Dopo due anni di lavoro in Zona Cero abbiamo deciso che era il momento di fare il salto di qualità e intraprendere la politica nelle strade, la denuncia critica dei problema sociali e rendere libera la nostra immaginazione per creare campagne rivendicative ed originali: questo è Proyecto Impulso, il veicolo che porta tutte le nostre inquietudine in strada. Zona Cero continua comunque ad essere la nostra casa. Proyecto Impulso, in questo momento, porta avanti una campagna centrale di denuncia del problema della casa, che in Spagna è ormai una delle principali preoccupazioni sociali. Nel nostro paese, abbiamo già diverse persone che hanno fatto ricorso al suicidio a causa della minaccia di sfratto, ogni giorno ci sono persone che vengono cacciate dalle loro abitazioni o non riescono ad arrivare a fine mese prima ancora che arrivi la rata del mutuo o dell’affitto.. Portiamo avanti inoltre una campagna di contro-informazione per mettere in evidenza il lato nascosto delle notizie spiegando così la realtà di quello che ci viene raccontato dai media. Ma non è tutto facciamo anche azioni puntuali verso altri problemi sociali e continuiamo a realizzare attività ludiche e culturali a Zona Cero, sport e giornate che si svolgono a contatto con la natura.

2) Qual’è la vostra idea politica nel campo economico e sociale?

L’economia è necessariamente legata al sistema sociale e ci deve essere tra entrambe un rapporto di subordinazione. Attualmente però è la parte sociale che si trova subordinata a quella economica quando invece un sistema equo imporebbe l’inverso e cioè l’economia subordinata senza condizioni al sociale. Soltanto su questa base è possibile articolare un sistema che possa far convivere la sovranità con la libertà dei popoli. Sul piano economico rigettiamo i grandi sistemi della storia ed aborriamo l’attuale capitalismo finanziario internazionale. Osiamo invece immaginare una terza via basata su una economia reale e vicina che sia sempre subordinata all’interesse generale e la cui importanza non sorpassi mai i limiti della decenza, come invece succede oggi. Una terza via che sia ordinata secondo un modello sociale che non ha niente a che fare con gli aggettivi como ‘progressismo’ o ‘socialismo’, nel loro usuale senso moderno del termine; che possa coprire le necessità sociali in maniera vera ed equilibrata, lontano sia dal parassitismo che dall’abbandono alla logica in vigore negli Stati pseudosociali dell’Europa Occidentale che trasformano i poveri in losers (perdenti).

3) Per voi l’immigrazione è un problema o una risorsa?

L’immigrazione è un arma a doppio taglio che costituisce un problema nel paese d’origine ed in quello di accoglienza. Il solito discorso di chi sostiene che gli immigrati fanno i lavoracci che noi non vogliamo fare, quando in realtà quello che non accettiamo non è il lavoro ma le condizioni, oppure che vengono a pagarci le pensioni e ad aumentare il nostro tasso de natalità è insostenibile. Allora, il problema è il fenomeno dell’immigrazione non l’immigrato in sè. L’immigrazione è quello che fa male ai popoli sia a chi la riceve e sia a chi la emette. Suppone spogliare ai paesi di origine di una porzione della sua popolazione, generalmente giovane e in molti casi preparata; quindi essi peggiorano ancora di più la loro situazione nazionale dopo avere perso la forza che avrebbe potuto aiutare a rialzare il paese. Oltre a ciò, tante volte si creano dei ghetti e della conflittualità nei paesi di accoglienza, competizione sleale sul mercato del lavoro, l’aumento dei costi dei servizi sociali e in più essa si scontra con la nostra cultura e le nostre tradizioni, creando a volte ingerenze o ad esempio persone apolidi cioè immigrati di seconda o terza generazione che non vengono riconosciuti nè nel loro paese di origine nè in quello di accoglienza. L’immigrazione è un arma del capitalismo che danneggia  tutte le parti coinvolte. Fare una lettura superficiale di questo tema, incolpando la persona che lascia tutto indietro sognando una vita migliore nella nostra Europa è un velo di fumo che ci svia dalle vere responsabilità e non ci permette di analizzare il problema in profondità impedendo quindi di trovare delle soluzioni. L’immigrante è vittima dell’immigrazione come lo siamo noi.

4) La cultura e la gioventù rappresentano secondo noi due aspetti fondamentali su cui puntare per ricostruire il futuro delle nostre nazioni. Siete d’accordo? Come rispondono i giovani alle vostre iniziative?

Completamente d’accordo. La cultura crea una base solida, magari indistruttibile, sulla quale è possibile edificare il futuro. E non parliamo soltanto della cultura generale o di una conoscenza statica ma parliamo anche di quella cultura del domani, dell’azione, delle idee, della formazione costante in tutti i campi diventando uno stile di vita. La gioventù deve essere la forza motrice dei cambiamenti. Viviamo in una gerontocrazia, una società vecchia ed accomodata, e soltanto la gioventù può avere l’energia sufficiente per affrontare con coraggio e ostinazione i problema attuali. Noi cerchiamo di dare voce a quella gioventù, dunque Proyecto Impulso è soprattutto composto di giovani delle città che sono interessati ad un modo di fare politica differente e reale, lontano dai discorsi vuoti e ad una forma decisa e romantica di riprendersi la vita.

5) In Spagna esistono molte spinte e realtà regionaliste che sognano l’autonomia e la separazione dal governo centrale di Madrid. Qual’è il vostro pensiero a riguardo?

Il problema principale di queste pressioni è che solitamente il loro è un motivo economico. Anche se si nascondono dietro ad argomenti culturali, storici o linguistici, i rappresentanti delle istanze separatiste si muovono seguendo le tipiche aspirazioni borghesi ed economiche basti pensare soprattutto al caso della Catalunya. Dicono di lottare contro l’oppressione che viene dalla Spagna, che opprime le loro rivendicazioni sovrane ma in realtà la Spagna è schiava così come tutte le regioni che la compongono. Quelli che sono padroni della nostra sovranità sono l’alta finanza, le macrostrutture bancarie, la speculazione e le mafie internazionali del debito. La Spagna, pur volendo, non sarebbe in grado di essere sovrana perché non lo è. Noi non immaginiamo la Spagna senza una delle sue regioni e non immaginiamo una delle sue regioni fuori dalla Spagna. Nonostante ciò rifiutiamo di avere una Spagna giacobina con un centro onnipotente che non ha niente a che vedere con la nostra Storia nè con la nostra idiosincrasia. La Spagna non è mai stata così forte e al tempo stesso così unita come quando era composta da diversi regni.

6) Passiamo alla geopolitica per conoscere meglio il vostro pensiero sulla politica estera. La prima domanda che vi pongo riguarda il Kosovo e la difficile situazione internazionale in cui si trova la Serbia. Nelle scorse settimane la Serbia ha ricevuto due schiaffi morali dal Tribunale Internazionale dell’Aja dove in due differenti processi sono stati assolti prima, i due generali croati Ante Gotovina e Mladen Markac responsabili dell’operazione “Tempesta” che portò al massacro di 150 persone e la deportazione di altre 200 mila, poi l’assoluzione ancor più grave di Ramush Haradinaj e dell’ex comandante ed ex vice comandante dell’UCK responsabili dell’eccidio di 800 persone dove solo una piccola parte di questi corpi fu ritrovata, esumata e consegnata ai famigliari mentre gli altri sono probabilmente finiti per essere sfruttati nel mercato nero degli organi. Dopo questa ennesima dimostrazione di giustizia a senso unico che valore può ancora valere il diritto internazionale? Siete d’accordo con noi se affermiamo che il Kosovo è uno stato fantoccio creato ad arte dagli americani?

Il Diritto Internazionale è una tenaglia che viene usata dai paesi più ‘forti’ per gestire e controllare a loro piacimento il resto del mondo attraverso una finta apparenza di legalità. I Tribunali Internazionali, dalla loro nascita, sono serviti per continuare a sottomettere i vinti sotto il giudizio arbitrario dei vincitori. Le notizie che ci raccontate, come queste sentenze del Tribunale del’Aja o del Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia, sono fedeli a questa linea. C’è di piu, la stessa esistenza del Diritto Internazionale, inteso come una combinazione di disposizioni comuni che regolano qualcosa che va oltre le relazioni tra i paesi, rappresenta un argomento estremamente complesso visto che implica l’accettazione tacita di una uguaglianza positiva molto lontana dalla realtà naturale perchè nega le differenze invece innegabili che esistono tra i diversi popoli. Certo, il Kosovo è un “stato” illegittimo che ha autoproclamato la sua indipendenza senza fare attenzione a quello che è disposto per questi casi nella variegata legislazione internazionale. La Storia ci dimostra che la stabilità nei Balcani è una delle chiavi più importante per la stabilità continentale e il Kosovo è diventato un centro di instabilità nel cuore stesso dell’Europa, agitato e controllato dalla diplomazia nordamericana, la prima ad interessarsi alla destabilizzare di questa strategica zona del continente europeo. In questo caso, come in tanti altri, gli USA hanno contato sulla collaborazione strategica dei due dei suoi più grandi alleati musulmani: la Turchia e l’Arabia Saudita, interessate anche loro a stabilire una dorsale islamica che divida in due i Balcani: Kosovo, Bosnia e gli intenti di destabilizzazione in Macedonia hanno avuto quindi anche questo scopo.

7) La Palestina è entrata a far parte dell’ONU. Come giudicate questa piccola vittoria simbolica?

L‘entrata della Palestina con uno status così marginale appare come un premio di consolazione. Noi partiamo dal presupposto che l’ONU è in realtà un’organizzazione non-utile o meglio l’arma diplomatica dei forti che ha una frustrata aspirazione democratica e una rappresentatività sproporzionata, per cui possiamo dire apertamente che essa non serve a niente. Il nuovo status della Palestina concessa nel mezzo dei ripetuti attacchi israeliani rende evidente l’incapacità e la poca volontà della comunità internazionale di dare una risposta seria al problema. In una situazione così occorre un aiuto reale sul terreno da parte di coloro che tanto difendono i Diritti Umani per cercare di fermare la machina di guerra israeliana, quindi far diventare la Palestina un Membro Osservatore dell’ONU pare più una beffa che un aiuto. Il riconoscimento diplomatico di un sentimento popolare di solidarietà verso il popolo palestinese è inutile perchè esso necessita invece il sostegno concreto di tutti quegli stessi Stati che l’hanno appoggiata simbolicamente per affrontare gli USA e Israele in maniera concreta. La risposta data da Israele è stata chiara, essa ha autorizzato la costruzione di nuovi insediamenti e di contro c’è da riscontrare la solita passività della stessa comunità internazionale che in questo ultimo periodo ha fatto sembrare di strizzare l’occhio alla Palestina concedendogli questo status.

8) E’ notizia di pochi mesi fa che l’Argentina ha dichiarato illegale la speculazione finanziaria. Il Sudamerica sta vivendo una stagione di emancipazione dall’ingombrante imperialismo yankee i quali hanno sempre visto il continente dell’america del sud come un giardino di loro proprietà. Come giudicate l’operato dei leader come Chavez, Morales e Kirchner?

Noi pensiamo che la situazione nel Sudamerica è molto più complessa. È vero che ci sono degli intenti per emanciparsi dal controllo nordamericano ma questo è positivo nella misura in cui esso favorisca la sovranità dei popoli. Invece questi intenti di emancipazione non sono automaticamente buoni solo perchè si contrappongono all’imperialismo yankee. Chávez, ad esempio, professa un populismo marxista e grottesco che dista molto dall’essere un modello e la stessa cosa possiamo dire del signor Morales. La Kirchner invece si nutre di un populismo opportunista e demagogo e prima di opinare dovremo capire meglio se questa sua lotta di emancipazione dagli USA non finisca invece per diventare dipendente agli interessi di altri inversori stranieri. Insomma tifiamo per l’emancipazione dei popoli sudamericani ma non supportiamo nessuno di questi tre in quanto, al di là di alcune notizie che ci colpiscono positivamente, nel complesso continua ad essere forte la componente dispotica che ha accompagnato sempre questa regione.

9) Assad e i siriani continuano a resistere agli attacchi mediatici e militari dell’Occidente. La domanda è come mai secondo voi dopo l’11 settembre 2001 l’Occidente ha combattuto contro il terrorismo uccidendo milioni di persone e ora supportano e finanziano gli stessi terroristi che hanno operato in Libia prima e ora stanno operando in Siria contro i siriani e il governo di Assad?

L’11 settembre fu un attentato farsa che ha alimentato il fantasma del terrorismo internazionale ed è stato utilizzato come alibi per dei fini economici, politici e geoestrategici. Ci sono stati attentati con investigazioni e conclusioni che non sono mai state abbastanza chiare (in Spagna abbiamo avuto l’attentato di Atocha l’11 Marzo 2004 che ha portato il risultato di 192 morti). Questa presunta lotta degli USA contro l’islamismo radicale è stata usata in maniera deviante come nel caso dell’Afghanistan e come ancor in maniera più significativa nell’attacco verso l’allora regime arabe laico dell’Iraq e adesso di nuovo in Libia e Siria. In realtà gli USA usano gli islamisti wahabiti per rovesciare regimi arabi legittimi a carattere nazionale e sociale.

10) L’Europa di oggi schiaccia i popoli e distrugge le nazioni, è manovrata da banchieri, speculatori ed entità sovranazionali. Alcuni stati iniziano a ribellarsi penso ad esempio all’Ungheria e all’Islanda. L’Europa fatta di nazioni sovrane e popoli liberi è ancora un sogno realizzabile?

Assolutamente sì. L’Europa formata da nazione sovrane e popoli liberi è il futuro, perché non può accadere in nessun altra maniera, perché non può continuare a durare per molto tempo ancora un’Unione Europea come quella descritta nel suo enunciato e perché il temperamento europeo non può conformarsi con questa sottomissione cieca a interessi alieni. L’Islanda e l’Ungheria sono due esempi di resistenza ma non sono sufficienti. Quest’altra Europa sarà possibile soltanto se ogni nazione d’Europa si rialzerà, se ognuno di noi si oppone ogni giorno con coraggio e speranza a tutto ciò che ci opprime senza smettere di sognare di costruire un’Europa libera e sovrana.

11) Quali sono i vostri sogni per il futuro?

Continuare e proseguire a difendere quello in cui crediamo; tornare ad alzarci ogni mattina con la speranza di essere e creare qualcosa di positivo facendo ogni giorno qualcosa di buono. È impossibile riassumere qui tutti i nostri sogni per il futuro. Quello che possiamo dire è che il futuro deve essere ancora costruito e noi abbiamo la volontà e la determinazione di continuare ad edificarlo.

Grazie ragazzi e vi auguriamo che possiate sempre di più dare impulso ed energia al vostro progetto svegliando sempre più coscienze attraverso la vostra forza creativa, le vostre idee e il vostro agire politico. Gracias y buena suerte

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Diario di un viaggio: l’Iran

inline-iran-brickwall-halal-internet-intranetRubrica a cura di Jacopo Trionfera dell’Associazione Culturale Zenit

Parte 1

Nel corso del 700 l’illuminismo e la rivoluzione francese sancirono la definitiva scissione tra potere temporale e spirituale. Da quel momento in poi, la Chiesa sarebbe stata custode della ritualità, della preghiera e del culto; un governo e un parlamento si sarebbero occupati della gestione politica, senza, a loro volta, contrastare decisioni prese nell’ambiente clericale per ciò che riguardava i suoi affari. Si manifestava, a livello filosofico e conseguentemente empirico, la vittoria della Ragione: la quale avrebbe permesso il concretizzarsi,  con la scomparsa del potere assoluto di origine divina, della migliore tra le realtà possibili. Weberianamente, al “potere tradizionale”, basato sulla credenza, da parte delle popolazioni ad esso sottoposte, in un ordinamento sociale derivato da leggi e valori sacri e perpetuati attraverso millenni, si sarebbe sostituito, progressivamente, il potere “legale razionale”, in cui ogni struttura statale avrebbe avuto alla sua base una costituzione, stilata da governanti eletti a suffragio prima limitato e poi universale. Ogni successiva decisione politica sarebbe stata ancorata allo stesso virtuosismo, e il voto avrebbe costituito sempre, per il cittadino, l’occasione per revocare il mandato all’elettorato passivo, se  quest’ultimo non si fosse dimostrato all’altezza del suo compito.

Il pericolo insito nella scissione tra le due cariche toccava tutti gli aspetti di una società ed era  duplice:  per il potere politico, perché secolarizzandosi  avrebbe potuto  perdere di vista il sacro obiettivo di offrire prosperità e giustizia agli individui, cadendo nella corruzione e ridimensionandosi  a brama di ricchezza personale; per la società civile stessa, che ne avrebbe risentito  in quell’organicità che usi, costumi e tradizioni eterne le avevano in passato garantito, con conseguenze pratiche devastanti, come lotte di classe, egoismo concorrenziale e  alienazione rispetto alla comunità.

La Persia, sotto la dinastia dei Qajar, appariva alla fine dell’800 strettamente dipendente, a livello economico e culturale, da paesi come Russia e Gran Bretagna: gli europei erano fautori di una laicizzazione dello stato, volta soprattutto ad emarginare politicamente e socialmente il clero sciiti. Il 19 agosto 1953, tramite agenti presenti a Teheran, la CIA mise in atto un colpo di stato ai danni dell’allora primo ministro Mossadeq, “colpevole” di voler nazionalizzare le società petrolifere iraniane, dei cui utili, beneficiavano, ovviamente, soprattutto gli inglesi e gli americani. Gli Usa sognavano ancora, alla fine degli anni ‘60, l’Iran, paese musulmano che godeva, tuttavia, di buoni rapporti con Israele, come avamposto di potere in medio oriente, con lo shah nel ruolo di garante degli interessi angloamericani nel settore petrolifero locale.

Ruhollah Khomeini, classe 1900, figlio di un dottore della legge islamica e portati a termine, in giovane età, gli studi teologici, iniziò, dal 1962, ad opporsi al despotismo di Muhammad Reza, criticando con toni forti gli arresti arbitrari e le torture perpetrate dalla Corte Suprema nei confronti degli oppositori. Indomabile spirito combattivo, arrestato nel 1963 ed esiliato, Khomeini era convinto che per la rinascita iraniana non fossero necessarie preghiere o particolare applicazione nei lamenti rituali, tipici dello sciismo, ma una vigorosa attivazione delle guide spirituali. L’ayatollah voleva riportare nella vita sociale persiana  le regole economiche, politiche e giuridiche dettate dal Corano ed espellere, dalle fila degli alti prelati, coloro che si erano arricchiti tramite i Pahlavi e alle spalle del popolo. Nell’ideologia khomeinista, a tutti i componenti della comunità islamica sarebbero stati garantiti uguali diritti politici, in una forma democratica di rappresentanza (repubblica) in cui i cittadini avrebbero potuto eleggere un parlamento , il majlis, a suffragio universale. Le leggi, però, sarebbero state quelle immutabili e assolute del Corano, che oltrepassavano la contingenza delle società esistite ed esistenti; nessuna maggioranza avrebbe avuto il diritto di mutarle, corromperle o dissolverle: l’unica costituzione sarebbe stata quella di Dio. Negli anni ‘70, mentre l’Imam si pronunciava, l’Iran era un paese oppresso da un sovrano, il quale, invece di occuparsi del’arretratezza, della povertà o della disoccupazione dilagante, festeggiava sfarzosamente i 2500 anni dalla fondazione del’impero persiano.

La rivoluzione islamica del 1979, cresciuta sotto la tutela ideologica di Shariati e Khomeini, fu attuata da uomini e donne desiderosi di tornare a essere padroni del proprio destino. I progressi sociali furono nell’immediato e sono stati, nel corso degli anni successivi, notevoli: le imprese dei notabili, che avevano fatto affari con la corte e tramite prestiti statali usufruiti a interessi modesti, furono nazionalizzate per non dissipare il capitale umano che le aveva sorrette; furono distribuiti ai contadini 850 000 ettari di terre confiscate, permettendo la nascita di oltre 10 000 cooperative, con un contemporaneo aumento del prezzo dei prodotti agricoli. Per migliorare la qualità della vita nel paesaggio rurale furono costruite strade, ospedali e strutture adeguate per irrorare acqua e fornire elettricità. Gran parte del bilancio del regime è stato speso in sussidi ai meno abbienti e gli operai godono tuttora di tutele degne dei paesi più sviluppati: 6 giorni lavorativi, 48 ore settimanali e paga ogni 7 giorni, con mutui contratti a interessi ridicoli tra le banche e le coppie giovani e i ceti meno abbienti. La mortalità infantile è diminuita del 70 per cento e l’analfabetismo tra i 6 e i 29 anni è un fenomeno quasi del tutto assente nella Repubblica Islamica odierna.

Le vicende storico sociali affrontate richiedono due riflessioni conclusive. La prima riguarda l’islamizzazione che la società iraniana ha subito a partire dal 1979: per le donne tornò l’obbligo del velo, per gli uomini la possibilità di sposarsi con più donne contemporaneamente, con pene corporali molto severe per bevitori di alcoolici, “fornicatori”(ovvero chi consumasse rapporti extra matrimoniali), ladri e spacciatori e pena capitale certa per l’adulterio. I maggiori critici dell’Islam ritengono queste punizioni irrispettose della vita e dei più basilari diritti umani. Noi affermeremo, invece, che se giudicassimo “estreme” certe pratiche per la loro durezza (personalmente, per esempio, mi ripugna il pensiero di una donna lapidata, anche se fosse la peggiore delle prostitute), dovremmo ammettere, per essere imparziali, che “estremi” sembrano essere anche alcuni nostri costumi occidentali: qui non ci sono veli , ma gonne lucide, trucco alla Moira Orfei e pseudo mutande ridotte a fili di cotone; l’alcool è permesso, certo, ma  si muore di cirrosi epatica o ci si va a schiantare con la macchina di papà, magari dopo aver sgranocchiato qualche pasticca di ecstasy. Abbiamo regolamenti meno oppressivi che in passato per quello che riguarda  il matrimonio, ma  proprio per questo tradiamo, consumiamo il rapporto  e lo abbandoniamo con grande facilità. In poche parole, noi uomini occidentali siamo liberi di fare qualsiasi cosa finchè la legge ce lo permette, ma siamo schiavi della necessità di soddisfare i nostri bisogni edonistici ed egoistici, tradendo uno scarso senso della misura. Appare evidente, quindi, la relatività  di un eventuale giudizio negativo sulle usanze degli islamici più ortodossi in tema di moralità .

Seconda considerazione: la fede religiosa, se vissuta e applicata con dedizione e non per mera apparenza, può rendere organica la vita in comune e cementificare l’appartenenza all’interno di qualsiasi gruppo sociale, dalla tribù primitiva al più evoluto degli stati moderni. Far parte di un aggregato, grande o piccolo che sia, in cui l’aspetto emotivo dello stare insieme sia accompagnato da quello spirituale, è concepito dagli uomini come sacro,  un’essenza che supera la semplice somma quantitativa dei singoli. Ma se la percezione della trascendenza degli invalicabili confini che ci racchiudono sarà priva di una corrispondente organizzazione militare, tattica e politica predisposta, eventualmente, anche a debellare possibili tentativi di attacco dall’esterno, il nostro spazio vitale sarà destinato a perire. Tristi esempi storici ne sono stati gli Indiani d’America nell’800 e più recentemente i Palestinesi: popolazioni che vivevano armoniosamente e pacificamente ma che sono state devastate nel loro territorio perché incapaci di difendersi. La geopolitica , d’altronde, è un po’ una proiezione della vita, e oggi, in entrambi i campi, la giustizia spesso soccombe alla legge del più forte.

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Abkazia. Un paradosso tutto europeo

img_606X341_Analysis-0803-ABKHAZIAArticolo a cura di Mattia De Persio dell’Associazione Culturale Zenit

 

Situata nel cuore del Caucaso, affacciata ad ovest sul Mar Nero, confinante a nord con la Russia e a est sud-est con la Georgia, l’Abkazia viene definita dai suoi abitanti come uno “Stato parzialmente riconosciuto”, ma viene considerata dalla comunità internazionale come uno stato de facto, titolare della gestione della propria sovranità, ma a cui non è riconosciuta l’indipendenza. La questione prese piede quando il blocco sovietico cominciò a sgretolarsi sul finire degli anni ottanta, alimentando le tensioni etniche nella regione tra abkazi e georgiani che esplosero in vista dell’indipendenza di Tbilisi (il 9 aprile 1991). Malgrado le principali organizzazioni internazionali (Onu, Osce e Unione europea) abbiano riconosciuto l’Abkazia come parte della Georgia, nell’agosto del 2008 il parlamento abkazo ha chiesto alla Russia, al termine della guerra in Ossezia del sud, di riconoscere il suo stato come indipendente da quello georgiano. La richiesta è stata accolta senza indugi dal Cremlino, seguito da Nicaragua e Venezuela. Tuttavia, ancora oggi, c’è una strenua volontà a non riconoscere l’Abkazia da parte della Georgia, come ha affermato il presidente Alexander Ankvab, richiamando le evidenti diversità storiche e culturali che differenziano i due popoli e che affondano ben oltre il medioevo. Se da un lato Mosca ha acconsentito allo stanziamento di 3500 suoi soldati in territorio abcazo e alla concessione del passaporto russo alla popolazione, dall’altro il governo di Tbilisi gode dell’appoggio dell’Unione europea e degli Usa che considerano, sminuendola, l’Abkazia un Paese fantoccio in mano ai russi. Se però molti Paesi europei sono sul punto di cambiare idea, qualsiasi iniziativa georgiana ha lo scopo di destabilizzare economicamente e politicamente l’Abkazia. Infatti, sebbene l’80% degli investimenti nel territorio sia russo e Turchia e Giordania abbiano dato il loro consenso a sviluppare relazioni economiche lungo il Mar Nero, sull’economia abkaza grava tuttavia un embargo che la isola dal sistema economico internazionale. Basti pensare che la Georgia ha proposto di creare per abcazi e osseti un passaporto “neutrale”, ma che sarebbe ancora un documento georgiano che consentirebbe a Tbilisi di limitare i loro movimenti. “Un blocco controproducente e condizionato da terzi”, questa è l’accusa del Cremlino, dove il sostegno degli Stati Uniti alla Georgia in chiave anti-russa sembra condizionare la comunità internazionale onde evitare di analizzare la questione. Per questa ragione il mondo occidentale si preoccupa di sottolineare che Sukhumi non è la capitale di alcuno Stato, come ha ribadito il segretario generale della Nato Andres Fogh Rasmussen, richiamandosi al diritto internazionale: “La sovranità e l’integrità della Georgia e i confini internazionalmente riconosciuti non contribuiscono a trovare una soluzione pacifica”. Quello che è vero è che Sukhumi non tornerà mai sotto Tbilisi. E a replicare a Rasmussen è lo stesso presidente abcazo il quale, nel corso di una sua recente intervista, ha paragonato la condizione del proprio Paese a quella del Kosovo, sottolineando come la comunità internazionale abbia adottato un diverso atteggiamento per i due casi (se si tiene conto, ad esempio, che la repubblica kosovara può millantare 81 riconoscimenti internazionali rispetto ai soli 4 nei confronti dell’Abkazia) se si considera che nei Balcani si è assistito alla creazione di uno stato privo di radici storico-culturali. Paradossi di un’Europa che non c’è quando ci sono da risolvere conflitti di questo tipo.

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I fuochi d’Egitto, dalla primavera araba a Morsi

egittoArticolo a cura di Maria Giovanna Lanotte dell’Associazione Culturale Zenit

Mohamed Morsi è il primo presidente dell’era post Mubarak, un capitolo della storia d’Egitto durato venti anni. In questi giorni e’ al centro dei notiziari di tutto il mondo per essersi attribuito poteri “faraonici” a scapito della magistratura, poteri che serviranno a far lavorare in continuità il tavolo dei lavori per una nuova costituzione. Le decisioni del capo di Stato con questo decreto diventano inappellabili. Il 15 dicembre gli egiziani saranno chiamati a votare un referendum per rendere la Sharia, la legge islamica, la base del nuovo assetto legislativo e costituzionale. Questa iniziativa è coerente con le posizioni politiche dei Fratelli Musulmani, organizzazione internazionale islamica a cui fa fede il partito di Morsi, il Partito Libertà e Giustizia. E’la prima volta nella storia che la Fratellanza va democraticamente al potere. Nelle elezioni dello scorso giugno, Morsi si era candidato proponendo di ridare spina dorsale allo stato con la rettitudine della Sharia, escludendo tuttavia l’ipotesi di uno stato teocratico. Ha vinto con uno stacco di pochissimi punti percentuali (51 a 48) su Ahmed Shafik, primo ministro uscente di Mubarak, e con la partecipazione del 51% degli aventi diritto. La vittoria risicata si è tradotta in qualche tensione post elezioni con i sostenitori di Shafik, ma il presidente ha smorzato ogni malcontento annunciandosi come il presidente di tutti gli egiziani. La sua elezione è stata accolta con entusiasmo dalle realtà politiche di matrice islamica come Hamas in Palestina, una terra a cui il presidente ha subito rivolto parole di sostegno ed appoggio. I Fratelli Musulmani sono infatti notoriamente scettici circa gli accordi di pace del 1979 firmati con Israele, ma Morsi ha tuttavia mantenuto quiete le acque. Ha dichiarato: «Manterremo tutti gli accordi e i trattati internazionali perché siamo interessati alla pace dinanzi a tutto il mondo». Morsi ha trasformato queste parole di speranza in fatti lo scorso novembre, quando Israele ha dato inizio all’offensiva militare a Gaza denominata Colonna di nuvole, in cui si sono susseguiti eccidi contro la popolazione civile palestinese. Morsi ha proceduto ritirando il suo ambasciatore da Tel Aviv, organizzando una visita lampo di tre ore a Gaza del premier Kasham Kandil e dando voce alle vittime davanti a tutta la comunità internazionale definendo l’operazione “un’offensiva contro l’umanità”. L’Egitto si è reso così garante dell’accordo della tregua tra le due fazioni il 21 novembre insieme al segretario americano Hillary Clinton, e si è affermato come stato guida del mondo arabo nonché voce nel mondo delle istanze mediorientali. Il Washington Post ha commentato: “I rapidi cambiamenti in Egitto hanno lasciato gli Stati Uniti e Israele, con un partner meno flessibile, ma potenzialmente più forte. Morsi, un islamista, può pretendere di parlare per il popolo egiziano in un modo che a Mubarak non era concesso. E l’impegno dell’Egitto a sottoscrivere il cessate il fuoco può gettare le basi per Il Cairo per servire come fidato intermediario in qualsiasi futuro negoziato di pace”. Nel giro di due settimane l’Egitto è passato da questo status internazionale al baratro di una nuova guerra civile. Contro il decreto del 22 novembre sono scesi in piazza Tahir, la piazza simbolo della primavera araba, laici, cristiano copti, docenti universitari, magistrati, partiti di opposizione, e si sono contati sette morti e centinaia di feriti in disordini sia con l’esercito che con la fazione islamista. Particolarmente vigorosa è la rabbia dei laici, che avevano votato un islamista solo per non dare continuità al governo del faraone Mubarak. I manifestanti hanno minacciato l’incolumità fisica del parlamento e di Morsi arrivando a tagliare il filo spinato del palazzo presidenziale. Per contro il presidente ha schierato in difesa carri armati e blindati della guardia presidenziale. Il rappresentante dei cristiano copti presso i Fratelli Musulmani, Rafik Habib, ha abbandonato il governo. Alcune sedi dei Fratelli Musulmani sono state messe a fuoco, e la fratellanza è scesa in piazza per difendere il mandato elettorale e la volontà popolare lo scorso venerdì, quandi solo ad Il Cairo erano previsti 17 cortei diversi di contestazione. Fra questi spicca il Fronte di Salvezza Nazionale, un movimento di liberali e laici di sinistra creato poche ore dopo il decreto incriminato, che si è distinto per aver provocato un clima di intransigenza al prospetto della nuova costituzione. L’Esercito ha richiamato tutte le forze politiche, comprese le islamiste, per evitare che “la crisi sfoci in un disastro”, specialmente dopo il conferimento di poteri di arresto illimitati da parte di Morsi. Ha anche dichiarato di non volersi intromettere tra due fazioni, facendo quasi intendere di muoversi in modo indipendente. Con queste premesse, Morsi ha incontrato parte dell’opposizione in un “dialogo nazionale”, riunione boicottata dai liberali e dai laici, ha ritirato il decreto e promesso modifiche del testo costituzionale nella notte fra sabato 8 e domenica 9 dicembre. L’articolo 4 del “nuovo” decreto recita tuttavia: “Tutte le dichiarazioni costituzionali, inclusa la presente, sono immuni da ricorsi davanti ai tribunali”. L’articolo 3 preannuncia la formazione di un’assemblea costituente in caso di vittoria del no al referendum, per provvedere nei tre mesi successivi alla redazione di un nuovo testo. Sulla capitale nel frattempo sfrecciano caccia militari F16, il palazzo presidenziale è circondato da sit-in, la sede della televisione di stato è piantonata dalla guardia presidenziale. Morsi è stato abbandonato da molti suoi consiglieri di governo e da gran parte del corpo diplomatico egiziano all’estero, che si è rifiutato di sovrintendere al referendum di sabato. Il Fronte ha mantenuto l’orientamento di protesta poiché la costituzione islamista, dicono testualmente, “limita i nostri diritti e le nostre libertà”. Anche il Movimento giovanile 6 aprile, riconoscibile per il logo con il pugno chiuso, ha annunciato lotta ad oltranza al referendum. Esso è stato l’avanguardia della rivoluzione contro Mubarak e si inserisce in un quadro internazionale più ampio a differenza dei connazionali. Nel mondo infatti il pugno chiuso è il simbolo di Otpor, il movimento che ha provocato la caduta di Milosevic in Serbia nel 2000. Da allora i veterani di Otpor organizzano campi base di formazione per rivoluzionari di professione da tutto il mondo, a cui hanno partecipato anche i ragazzi egiziani del Movimento 6 aprile prima della rivoluzione. Il pugno chiuso delle rivoluzioni dette colorate si è ad esempio tinto di verde in Iran nel 2009 per le contestazioni ad Ahmadinejad, di arancione in Ucraina, Georgia, Kirghizistan, Libano, di nero per gli Indignados e Occupy Wall Street. Il loro campo campo base nella capitale serba si chiama Canvas (Centre for Applied Non Violent Action and Strategies), ed è finanziato dalla Freedom House (organizzazione non governativa con sede a Washington), dal miliardario americano George Soros e l’International Republican Institute, istituto conservatore con sede a Washington di cui fa parte anche il noto senatore John McCain. L’IRI è accreditato nello stesso Egitto come ONG ed è stato attivo anche durante le elezioni, motivo per cui è stato accusato di ingerenza straniera negli affari interni dai governi militari. La primavera araba è stata quell’insieme di sconvolgimenti geopolitici che dal dicembre 2010 ha portato ad un nuovo sistema di governi in tutto il Mediterraneo. Queste sollevazioni della media borghesia contro la corruzione dei governi sono passate dalle piazze di Algeria e Tunisia, dal Baharain, dal Libano, dalla rivoluzione egiziana contro Mubarak, dal colpo di stato in Libia e l’uccisione di Gheddafi, sino ai giorni odierni dei disordini in Siria contro Assad. Anche il G20, la riunione dei potenti della terra, come l’IRI aveva espresso durante la primavera araba la volontà di accompagnare le riforme tramite un aiuto finanziario. Un’intromissione certo meno sanguinosa della campagna in Libia. Finchè i popoli arabi subiranno l’imposizione della scacchiera occidentale nei giochi elettorali, la strada della pace resterà invalicabile. Una congiunzione fra Islam e democrazia non puo’essere innestata da corpi estranei nella cultura civica. E le nazioni della primavera araba, in meno di un anno, si sono ritrovate davanti ad un cupo inverno, prive di ancoraggio al sistema democratico e sulla borderline di un regime religioso. E’una settimana cruciale per il Medio Oriente: dagli sviluppi in Egitto, nazione leader della regione, conseguirà una governance diversa per tutto il sistema di alleanze. Da una parte troviamo l’asse Iran-Turchia-Siria e dall’altra Israele-Stati Uniti-Arabia Saudita. Ci auguriamo che, a prescindere dall’esito referendario, ne esca vincitrice la sovranità nazionale degli egiziani.

 

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9 anni.. tanti auguri Zenit!!

318263_100252316773833_1614657868_nPensiero di Matteo Caponetti dell’Associazione Culturale Zenit

La gerarchia non è un diritto è qualcosa che si costruisce con il tempo attraverso sacrifici, costanza, presenza, volontà e spirito d’appartenenza. Essere responsabili di una comunità vuol dire anche prendersi le responsabilità negli anni degli errori che si è fatti o accollarsi quelli dei propri fratelli. Essere responsabili significa amare la propria comunità e difendere il suo operato nel bene e soprattutto nel male perchè la tua comunità diventa parte di te, diventa la tua famiglia e non c’è poi niente di più importante al mondo. Essere responsabili di una comunità è saper essere umili, saper ascoltare, saper costruire, saper gioire con i tuoi camerati e saper affrontare le loro difficoltà perchè le loro sconfitte sono anche le tue, le loro vittorie sono anche le tue. Essere responsabili significa essere riconosciuti dai tuoi fratelli come chi deve mettere l’ultima parola e affrontare i nemici di dentro e di fuori con la fermezza e la forza che la comunità ti affida. Essere responsabili significa mettere alla prova la fedeltà di chi sta al tuo fianco. Essere responsabili significa non abbandonare mai per nessuna ragione al mondo la propria comunità a costo della vita. Essere responsabili è semplicemente donare anima e corpo all’idea, alle linee guida condivise con i tuoi fratelli ed essere sempre presente in ogni situazione, in ogni appuntamento, in ogni istante senza se e senza ma e conoscere fino in fondo i tuoi amici, i tuoi camerati perchè devi saper riconoscere quando qualcuno possa avere il bisogno di confrontarsi o di confidarsi o semplicemente sfogarsi solo così, anche se esso non sarà un guerriero, sai che nella lotta ideale o in uno scontro fisico non ti abbondonerà mai. Zenit è pronta a sfidare gli abissi e le viltà di questa società e lo continuerà a fare per molti anzi moltissimi anni ma sempre con il sorriso e lo sguardo limpido e puro perchè come noi non c’è nessuno!!
Dedicato alla comunità militante Zenit
Lunga vita all’Associazione culturale Zenit!

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Giornata e cena solidale a favore delle minoranze serbe del Kosovo

331232_448711561843616_555428205_oGiovedì dalle 15 alle 22 sosteniamo insieme i serbi del Kosovo.
Punto di raccolta fondi e materiale vestiario, scolastico e ospedaliero.
Alle 19 proiezione documentario di Riccardo Iacona “La guerra infinita” seguirà breve dibattito e illustrazione del progetto “Accendiamo la Speranza” e i risultati raggiunti nel corso di questi anni di attività di solidarietà in Kosovo.
Cena italiana con aperitivo e pasta gentilmente offerta da un noto ristorante romano (€ 10).

Kosovo je Srbija!!!

Via Antonio Caracciolo 12 Roma

Associazione Culturale Zenit

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Come quando…

chavez sorriso 2Articolo a cura di Jacopo Trionfera dell’Associazione Culturale Zenit

Come quando promettesti di ridurre la povertà nel tuo paese e la dimezzasti, portando aiuti, cultura e medicinali nelle periferie di Caracas e nelle campagne venezuelane, come quando fornisti petrolio al 40 per cento del prezzo di mercato ai cittadini indigenti di New York in barba all’odiato Bush, come quella volta in cui definisti Obama un impostore ricordando i 40 milioni di poveri degli Stati Uniti d’America e il fallimento delle speranze degli africani che avevano creduto nel “Presidente nero”, come tutte le volte in cui denunciasti l’olocausto palestinese. Come quando dicesti che i maggiori introiti petroliferi si sarebbero dovuti  utilizzare in programmi d’aiuto verso le fasce più deboli della popolazione, come quando i venezuelani più poveri  dei  barrichos vennero a sostenerti per ribaltare un colpo di stato attuato da imprenditori petroliferi filo statunitensi nei tuoi confronti; come quando durante un vertice a Copenhagen ti schierasti a favore di giovani che manifestavano contro il capitalismo per le vie della stessa città, come puntualmente rispondesti con referendum a chi ti tacciava di essere un dittatore e di truccare le elezioni. Come quando minacciasti la nazionalizzazione delle banche che non ti avessero sostenuto nelle riforme agricole, come nel momento in cui decidesti di strappare il tuo paese alle grinfie usuraie della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale,  come quando aumentasti il salario minimo, rendesti gratuita l’istruzione e le borse di studio, quando creasti una banca popolare affinché concedesse crediti per scopi sociali e umani, come tutte le volte in cui ci regalasti un sorriso da Presidente sincero e gioviale quale sei, di fronte ad un mondo politico globale grigio e tecnocratico.

Auguri di pronta guarigione, ieri come oggi:

ADELANTE HUGO CHAVEZ!

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Don’t cry for me Europa

cristina-kirchner140Articolo di Cristina Di Giorgi dell’Associazione Culturale Zenit

Eva Duarte Peron, una delle più grandi donne della storia dell’Argentina e non solo, nel musical ispirato alla sua figura cantava “Don’t cry for me Argentina”, dedicandola al suo amato Paese. A tanti anni di distanza e dopo infinite vicissitudini, un’altra donna di grande spessore e carattere è oggi insediata saldamente nella Casa Rosada: è Cristina Kirchner, avvocato e dal 2007 Presidente dell’Argentina. E conoscendo il suo carattere forte e il suo profondo e sano nazionalismo, potremmo forse immaginarla, parafrasando il brano di Evita, mentre canta un sentito “Don’t cry for me Europa”, con il quale grida al mondo intero di non preoccuparsi per il suo Paese (che è abbastanza forte da cavarsela da solo) e che è finito il tempo in cui si poteva sfruttare liberamente l’economia argentina.
Si, perché la Kirchner è alla guida del primo Stato in assoluto a promulgare una legge che segna un gran bel colpo nella guerra (perché di vera e propria guerra si tratta, anche se combattuta senz’armi convenzionalmente intese) contro l’ordine economico fondato sullo strapotere delle banche. La legge in questione, votata ed approvata il 28 novembre scorso (43 voti a favore e 19 contrari), vieta in quanto “illegale e immorale” ogni forma di speculazione finanziaria basata sui “derivati”, cioè tutti i prodotti finanziari (per es. obbligazioni e azioni) il cui valore dipende dall’andamento sui mercati internazionali di un altro bene. In altre parole, quando questa norma verrà resa esecutiva (presumibilmente entro un mese dalla sua approvazione) le banche e gli istituti finanziari potranno occuparsi soltanto degli investimenti relativi ai beni reali, senza poter “scommettere” sui derivati (perché spesso e volentieri le speculazioni non sono altro che scommesse, in quanto tali assai aleatorie per giunta…). Per i non addetti ai meandri spesso molto complessi dell’economia mondiale, l’importanza di un fatto come questo può non essere di evidenza immediata. Ma basta pensarci un attimo per rendersi conto che quella posta in essere nel Paese guidato dalla Kirchner è una vera e propria rivoluzione: l’economia argentina, ripresasi da una grave crisi che l’ha colpita nel corso dell’ultimo decennio (con la dichiarazione di bancarotta da parte del Governo nel 2001 e due ristrutturazioni del debito nazionale, rispettivamente nel 2005 e nel 2010), si sta imponendo sui mercati occidentali con un’ascesa notevole. Ed è per proteggere le imprese locali (e quindi garantire la solidità della crescita economica interna) che lo Stato, con la legge di cui stiamo parlando, si riappropria dell’economia nazionale e instaura uno strettissimo controllo sulla finanza che, in quanto braccio operativo dell’economia reale deve essere ad essa subalterna e sottoposta per questo ad uno stretto controllo dello Stato centrale. Di conseguenza le banche e gli istituti di credito non hanno più la possibilità di agire sul mercato autonomamente. In parole povere: tutela dei risparmi personali, incremento del credito alle piccole e medie imprese locali, aumento degli investimenti nelle industrie nazionali e soprattutto, garanzia ai cittadini che i soggetti operanti nel mercato lo facciano, come si legge su La Naciòn, “con l’unico ed esclusivo intento di trarre profitto da un’attività che però deve avere immediatamente, come riflesso economico, l’apertura di crediti agevolati alle medie e piccole imprese, l’allargamento degli investimenti in industrie nazionali e l’assunzione di nuovo personale per andare all’attacco della disoccupazione giovanile che il governo considera la priorità assoluta in campo politico, economico, sociale”. E per ribadire questo concetto, il Presidente Kirchner pone un aut aut: “O la finanza capisce che i soldi servono per sviluppare l’economia allargando il mercato del lavoro, gli investimenti, dando credito alle imprese a interesse minimo e abbattendo la disoccupazione, oppure possono anche andare a investire in Europa, in Italia e in Spagna, se è questo che vogliono. Là li accoglieranno a braccia aperte”. E sempre la Kirchner, in risposta alle critiche del FMI, ha dichiarato: “preferisco un’inflazione altissima e spropositata se so che la disoccupazione dal 34% è scesa al 3,5%; che la povertà è diminuita del 55%; che il PIL viaggia di un +8% annuo; che la produttività industriale è aumentata del 300%; che c’è lavoro in Argentina, c’è mercato per tutti, e il mio popolo è molto ma molto più felice di prima, piuttosto che avere un’inflazione del 3% come in Italia, dove c’è depressione, disperazione, avvilimento e l’esistenza delle persone non conta più”.
Leggendo queste parole, che di sicuro hanno causato ben più che qualche mal di pancia alle lobbies finanziarie mondiali (e di questo tutti coloro che dichiarano di voler combattere lo strapotere delle banche non possono che rallegrarsi), non si può non pensare che anche in tempi cupi come quelli odierni, è possibile realizzare qualcosa di positivo in campo economico. Qualcosa che dia anche ai singoli cittadini la speranza che, nonostante i colpi che la profonda crisi attuale ha inferto su tutti, sia ancora possibile riprendersi. Partendo dall’orgoglio per la capacità delle proprie imprese nazionali e dall’efficienza di uno Stato in grado di proteggerle e tutelarle.
L’Argentina e la sua tradizione peronista, sulla base del principio dell’autodeterminazione dei popoli, per mezzo del suo Presidente Cristina Kirchner si è quindi dimostrata disposta a tutto pur di svincolarsi dalla schiavitù dei colossi finanziari e difendere la propria sovranità economica e politica. Un atteggiamento dal quale tutti i paesi del mondo dovrebbero prendere esempio. E chissà perché (ovviamente la domanda è più che ironica!) nell’Italia di Monti, che della finanza internazionale è figlio e servo, di tutto questo si sta ben attenti a non parlare. Continua a leggere

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